Intervista a Francesco Bonami (50° Biennale Revisited)

D) dato il successo di presenze di questa Biennale, di cui abbiamo già parlato nel nostro precedente incontro a Bassano d. Grappa (1, potrebbe ora, a tre mesi dalla chiusura, dare un punto di vista, se possibile, “esterno”, come se si estraniasse per un momento… obiettivamente: com’è stata questa Biennale?

R) il risultato della Biennale? Beh, la riguardo “da fuori” e rimane sempre la Biennale che doveva, secondo me, essere fatta in questo momento storico, di passaggio, anche della pratica curatoriale…è la Biennale che riportava la Biennale ad essere un mondo di sperimentazione.

Penso che questo fosse un elemento molto importante: la dimensione della Biennale era diventata lentamente una grande celebrazione di artisti, con nomi nuovi, però alla fine molto “celebratoria”… questa Biennale è stata, secondo me nel bene e nel male, un momento sperimentale nell’arte contemporanea, quindi con tutti i pregi e tutti i difetti del momento sperimentale.

Non credo che sarebbe stato possibile ricostruirla in un modo diverso. Rifletteva, e lo dico anche in senso negativo, la confusione del mondo dell’arte, degli artisti ma anche dei curatori. C’erano sempre state mostre in cui c’erano collaborazioni, con tanti curatori, come City on the moves di H.U. Obrist, però una grande mostra come la Biennale non era in fondo mai stata approcciata come un grande contenitore di tanti progetti diversi, è sempre stata approcciata come una mostra unica, che doveva avere un’unità… credo che questo sia stato l’elemento che caratterizza l’importanza di questa Biennale. Essendo poi la 50°, questo numero, così a metà, diventa anche significativo…

D) questo è stato anche un elemento di difficoltà, a livello di fruizione intendo…

R) la fruizione è stata in realtà un elemento difficoltà che io ho rilevato più fra gli esperti del settore che fra il pubblico normale, il pubblico si è rivelato, particolarmente i giovani, gli ottantamila giovani che abbiamo avuto, si sono rivelati più disponibili a questo tipo di esperienza che il pubblico professionale, i critici…

sì certo è una Biennale che ha messo in crisi sia l’idea del curatore unico, quindi ha messo in crisi in fondo anche me… però ha messo in crisi anche il critico, la stampa, perché gli strumenti di valutazione, forse è presuntuoso dirlo da parte mia, sono in ritardo rispetto a come si sviluppa anche l’arte contemporanea… eravamo entrati in un’era di grande spettacolarità, dove c’erano sì quelle tre o quattro opere che definivano la mostra e poi c’era tutto il resto che faceva in fondo da contorno, dava l’idea di comparse.

Questa invece era una mostra che non aveva momenti spettacolari ma un continuo processo di aggiustamento e in questo la critica d’arte, secondo me si è trovata spiazzata e anche in ritardo rispetto alla valutazione. Quindi nessuno ha valutato veramente la struttura della Biennale, hanno tutti valutato il mio lavoro e basta (2. Legittimo, però dimostrando di non capire effettivamente questa Biennale…

D) lei afferma di sostenere “la produzione di sogni per poter contenere la pazzia dei conflitti”: sin dal titolo “Sogni e Conflitti” il sogno rientra come parte fondante del suo operare e dell’operare dell’arte. Dal sogno il passaggio all’Utopia, come tensione sottesa al sognare, è lecito.

Lei pone in relazione Hammons a Beuys, aprendo simbolicamente la “sua” Biennale con la spilla di sicurezza sospesa nel vuoto tra i due Buddha di Hammons, in risposta al basalto del Das Ende des xx Jahrhundert (3) con cui Szeemann “chiudeva”, sempre simbolicamente, la precedente Biennale (e forse un’epoca). Lei parla di risposta generazionale dopo la generazione delle Grandi Utopie. Dalla Grande Utopia, l’Ideologia e la Rivoluzione, all’utopia silenziosa, l’utopia del vuoto e del quotidiano di Hammons.

L’utopia che “chiude” il percorso di questa Biennale, diventa Stazione in H.U. Obrist (4, come luogo simbolico della transitorietà del pensiero contemporaneo. Qual è dunque il ruolo del sogno, dell’utopia nell’arte della nuova generazione? Si può ancora trovare una tensione utopica nell’arte d’oggi? 

R) credo di sì, che ci sia una riscoperta … io credo che alla fine degli anni settanta sia finito, ed è stato un male, l’aspetto underground della sperimentazione artistica e della sperimentazione culturale. Gli anni ottanta sono diventati un’era tutta di comunicazione, tutta basata… sulla luce…ecco diciamo che negli anni ottanta e anche negli anni novanta, il rapporto luce-ombra, realtà-utopia non è più esistito, è esistita soltanto una realtà di successo, una realtà affermativa e non più una realtà interrogativa, dubitativa e credo che questo sia stato estremamente negativo per l’arte contemporanea.

O, se non negativo ha creato dei fenomeni altamente spettacolari, come ho detto prima, molto legati alla pubblicità, alla percezione immediata dell’opera d’arte…non è un caso che Damien Hirst venga fuori dagli anni novanta… Maurizio Cattelan pure… Noi ci domandiamo come mai questi artisti, che in fondo negli anni settanta non avrebbero potuto affermarsi, sarebbero stati messi alla berlina, adesso sono gli artisti che comunicano più facilmente con un pubblico molto vasto… e credo che questa Biennale riapra l’idea dell’utopia, riapra l’idea che ci sia un underground, delle zone d’ombra, una zona dove la comunicazione non è chiara, non esiste, oppure va costruita.

Tuttavia mi sono anche reso conto che siamo entrati in un’era che posso definire “hollywoodiana”, ma hollywoodiana nel senso che anche l’arte, mentre l’arte fino agli anni settanta era più utopica e anche molto astratta in termini di produzione… adesso siamo arrivati in un momento in cui l’arte lavora con gli stessi processi con cui lavora il cinema… cioè l’arte ha bisogno di storia, ha bisogno di climax, e quello si vede in tantissimi di questi artisti che nella loro spettacolarità in fondo creano delle storie, creano dei momenti.

Quando appunto uno come Cattelan, nell’immagine del papa con il meteorite… a noi degli anni settanta può sembrare un escamotage, una trovata del momento, però in realtà egli comincia a raccontare all’interno dell’arte contemporanea una storia, un momento di una storia e questo ha un grande impatto sulla percezione del pubblico.

Il pubblico vuole una narrativa, per questo si ritorna anche ad una pittura figurativa quasi conservatrice di alcuni giovani pittori contemporanei, perché vuole una narrazione e credo che questa Biennale forse non avesse questo tipo di narrativa, era difficile trovare…

D) quindi si ripropongono due livelli: un underground e un livello superiore…

R) alla fine l’utopia era questa proiezione dentro un underground, una zona d’ombra e quindi la mancanza di una fine… e credo che nella nostra società e anche nel mondo dell’arte invece la linearità, il rapporto narrativo, sia necessario per comunicare qualcosa.

Quindi la mancanza, se posso trovare un difetto, o un pregio, dipende dai punti di vista, il fatto che all’Arsenale l’ultima mostra fosse una mostra che non chiudeva, ma apriva, ha creato ulteriori problemi di percezione perché non aveva, non c’era, un climax: arrivava in fondo e invece di trovare il finale la mostra rimaneva aperta e lasciava questo senso quasi di insoddisfazione…

dentro tutto il processo della mostra, che poi veniva visto come caos…

D) il tema del caos poi, è una componente del contemporaneo che è importante venga percepita…

R) il merito che mi posso assumere è quello di aver rappresentato in maniera molto accurata, lo stato di caos della cultura in cui tutti viviamo e di aver rappresentato attraverso una mostra che non esiste una fine, le fini sono tutte artificiali.

Però forse ho sottovalutato la trasformazione antropologica dello spettatore, in particolare dello spettatore professionista, ormai abituato ad avere un momento finale, a guardare tutta la produzione visiva e creativa e artistica attraverso gli occhi di un film, di un racconto. In quello forse Szeemann era stato furbo, iniziava con il Grande Bambino (5e finiva con R. Serra e c’erano questi due momenti… in fondo è come dicono a Hollywood: “un grande film ha un grande inizio e una grande fine”, se poi a metà collassa non importa, ma se le due cose funzionano è stato un film di successo!

D) all’interno di questa struttura, impegnativa e particolare, che ha creato anche quindi delle difficoltà di comprensione, ma si sa, la novità è un fattore determinante nell’arte contemporanea, ha funzionato secondo lei il rapporto tra i curatori? Lei è soddisfatto oppure no?

R) si, si, ha funzionato. Quello che avevamo in mente si è realizzato. A parte ovviamente i normali momenti di crisi, la struttura ha funzionato.

D) il coinvolgimento di tanti co-curatori, significa che una sola persona non può più fare da regista ad un panorama così complesso quale quello della Biennale?

R) mah, no. Penso sia sempre possibile fare da regista ad un panorama così complesso, solo diventa un panorama, un discorso, più limitato. Però forse anche più chiaro da comprendere, perché c’è una logica no?

Il problema dell’Arsenale è stata questa mancanza di logica nell’organizzazione generale che ha creato grosse difficoltà di lettura, c’era una logica all’interno di ogni sezione…

D) ha qualche critica, qualche riserva, rispetto alle collaborazioni con gli altri curatori?

R) no. Credo che ogni mostra avesse una propria temperatura… la parte di Catherine David (6) non era una mostra, forse era più una riflessione su un luogo geografico, se sia possibile creare arte in quel luogo geografico.

Non mi aspettavo nulla di diverso, certo uno può avere delle perplessità su quel tipo di struttura. Posso dire che la Stazione Utopia aveva la sua forza e la sua debolezza nel suo essere fatta di eventi, per questo quando non c’erano gli eventi perdeva energia.

Era un luogo, un palcoscenico dove doveva succedere qualcosa… però anche nel fatto che a volte apparisse come questo palcoscenico vuoto dove era successo qualcosa, aveva il suo fascino…
Non ho quest’opportunità, ma a volte mi chiedo se dovessi curarne un’altra, non credo che sarebbe possibile farla con lo stesso sistema… credo che ogni gesto, ogni atto che può apparire sperimentale, porti anche con sé il germe della reazione…

nel senso che, sia io che un altro, qualsiasi cosa si faccia dopo… non credo che ci sia uno stadio successivo a quella cosa lì, io stesso ammetto che era il limite per una mostra del genere, oltre quello diventerebbe come tutta la Stazione Utopia, quindi una cosa molto difficile da contenere.

D) pensa che si possa fare una “mappatura” della situazione internazionale, e in questa Biennale pensa di esserci riuscito?

R) sì credo che questo fosse abbastanza curato, credo che la diversità dei vari curatori, la diversità dei vari approcci abbia dato una mappatura… credo che Igor Zabel (7) abbia dato una mappatura di come quel tipo di attività curatoriale si possa manifestare nell’Europa dell’Est, nei limiti di quella mostra.

Credo che Gilane Tawadros (8) abbia dato una mappatura abbastanza accurata di come potesse essere fatta una mostra, non sull’Africa in generale, ma su degli artisti africani. Credo che Hou Hanru (9) con la mostra sulle zone d’urgenza, fosse quello che dava di più l’idea di una nuova realtà emergente, che è quella asiatica e in particolar modo quella cinese.

D) gli accostamenti delle varie sezioni sono stati decisi da lei?

R) sì

D) capisco questa esigenza di una non-logica e di un discorso non finito di cui parlava prima, ma nel scegliere degli accostamenti o una successione, è stata fatta una scelta… il che in un certo senso implica un discorso…

R) beh sì, la mia scelta era di creare un ritmo che si spezzasse continuamente… dopo Gilane Tawadros non volevo che ci fosse Carlos Basualdo (10) , perché non volevo che ci fossero le due sezioni sul Sud America e l’Africa, due sezioni geograficamente o concettualmente vicine; non volevo che ci fosse Stazione Utopia vicino a Hou Hanru perché sono in fondo due modi, uno asiatico e uno occidentale, di vedere il caos, quindi se fossero state vicine sarebbero sembrate una variazione di una stessa mostra.

Il fatto che ci fosse Igor Zabel che era una cosa molto secca, e poi Hou Hanru, credo che creasse una tensione molto interessante da percepire.
Per esempio i sei artisti di Gabriel Orozco (11) a cui seguiva Stazione Utopia, credo che creasse un contrasto che rafforzava entrambe le sezioni.

Se i sei artisti di Orozco fossero stati in mezzo alle Corderie credo che sarebbero stati confusi come una parte di un’altra sezione, non essendoci un segno di installazioni molto precise…

D) a proposito della non definizione dei ruoli tra artista e curatore, di cui si accennava nel nostro precedente incontro, vorrei sapere cosa pensa di questa dichiarazione di N.Bourriaud: “oggi un artista è colui che produce mostre, esibizioni, che sono la nuova unità di base dell’arte. L’opera d’arte non è più significativa. Ciò che è significativo, comunque, è l’itinerario che l’artista designa tra un’opera e l’altra. […] La cosa più rilevante è la mostra in quanto evento, perché la mostra, in un certo senso, è l’accelerazione o la condensazione dello scambio interpersonale. In questo senso è naturalmente un modello sociale.”

R) non sono mai d’accordo con quello che dice Nicholas Bourriaud! (risate) Nel senso che le mostre che ha fatto sono quelle che non mi interessano come modello… e nello stesso tempo ce n’erano dentro alla Biennale di “modello Bourriaud”…

non son d’accordo sul fatto che le opere d’arte non sono importanti… ripeto, non ci potrebbe essere un’intera Biennale fatta come la Stazione Utopia… perché le opere d’arte sono importanti, sono importanti sia le relazioni tra le opere ma anche le opere, i momenti che le opere determinano in quanto tali.

D) io leggerei la dichiarazione di Bourriaud in un altro senso…vedrei il curatore come un artista che crea relazioni tra le opere: quindi la mostra diventa un momento vivo, in cui il visitatore svolge un percorso che è disegnato dal curatore attraverso la contrapposizione o l’affiancamento delle opere.

R) sì ma il curatore non è un artista! Il curatore è…

D) sì ma che differenza c’è? A livello anche operativo, se si vuole… nel momento in cui un artista realizza un grosso progetto che coinvolge più soggetti, per cui deve trovare i finanziamenti, piuttosto che concertare tutte le parti…

R) l’artista è l’autore di tutto il progetto, parte dalla sua idea e la realizza in un modo o nell’altro. Il curatore lavora con idee di altri.

Il curatore è più un regista di teatro, nel senso che ha dei testi, dei ruoli e tenta di farli interagire fra di loro in modo che abbiano un dialogo e che funzionino su quello che è il palcoscenico della mostra…

D) ma le stesse cose che ha appena detto riguardo al curatore non potrebbero essere usate riferite ad un artista? Se togliamo il momento prettamente pratico di realizzazione dell’opera…

R) no ma l’artista è, diciamo, l’artista è l’autore-regista… è la differenza fra Beckett che dirige Beckett e Ronconi che dirige Beckett, è diverso l’approccio!

Il curatore interpreta una relazione fra opere d’arte, l’artista la crea, crea la sua, e non è sempre detto che l’artista abbia la visione migliore dei rapporti fra le sue opere d’arte.

In questo interviene secondo me la differenza fra artista e curatore: il curatore ha del materiale a disposizione e lo interpreta, l’artista crea sia il materiale che le relazioni che ci sono tra gli elementi della sua opera.

D) non sempre l’artista crea il materiale che andrà a costituire la sua opera…nel senso che molte volte lavora su elementi, situazioni, relazioni o condizioni proprie della realtà, già esistenti…

R) beh, gli artisti che mi interessano, che secondo me compiono un gesto creativo, sono quelli che attraverso il loro lavoro trasformano la realtà, creano una soglia tra il loro lavoro e la realtà, anche se prendono questo tavolo e lo traspongono…

Bourriaud parla di cose prese dalla realtà e trasportate in un altro luogo, ma si parla sempre di realtà, quindi una situazione, secondo me, sociale sì, ma anche molto frustrante.

E’ il grande rischio, secondo me, che corre l’arte contemporanea, ovverosia il dimenticarsi la propria specificità, che invece è mantenuta dal teatro, dal cinema… cioè una soglia: quando noi entriamo in un cinema c’è una soglia, entriamo in luogo deputato… poi possiamo vedere il film più sperimentale o il film che mostra soltanto lo schermo nero, ma noi attraversiamo una soglia e dentro quella soglia abbiamo altri criteri, il teatro è la stessa cosa.

L’arte contemporanea, in alcune mostre che Bourriaud e altri curatori di quella generazione hanno fatto, non mostrava alcuna differenza con il mondo esterno, c’era la caffetteria con l’artista che faceva il caffè… quindi diventava un’esperienza frustrante, sì, sociale, reale, ma non c’era la soglia…

D) e in cosa vede lei questa soglia, oltre ad un limite meramente fisico che è il luogo dell’esposizione…

R) no, no, parlo di una soglia di trasformazione, nel senso che lo spettatore si trova davanti a qualcosa che è stato trasformato, mettiamo anche trasformato per essere riportato poi alla stessa…

D) condizione del quotidiano?

R) si, però deve esserci lo sfasamento… è lo stesso del teatro di Brecht, il modo di recitare che lui imponeva agli attori faceva sempre ricordare allo spettatore che era uno spettatore, non si doveva immedesimare in ciò che accadeva sul palcoscenico.

Il proprio ruolo era diverso. Questo secondo me è importante, che uno spettatore senta di avere un’esperienza diversa da quella della sua vita quotidiana.

Uno spettatore ha un ruolo… noi prendiamo un ruolo…

D) a proposito del quotidiano…si coglie, almeno in quello che avvertiamo come “avanguardia”, come sperimentazione, qui in Italia, una necessità, propria di alcuni artisti e curatori di uscire dalle normali strategie comunicative dell’arte, di uscire dai normali luoghi espositivi, di fruizione del linguaggio artistico, per andare nella direzione del quotidiano, di ciò che è public.

Public art e progetti di community based art: la necessità di reincontrare il reale, il quotidiano come luogo “abitato” da ciò che è pubblico, o come “luogo” virtuale, gruppo sociale, comunità.

Artisti di beuysiana ispirazione che ricominciano ad agire su realtà socio-culturali, politiche, come una grande scultura che si può e si deve plasmare, modellare, trasformare…

L’operazione artistica si scontra e s’incontra, trasforma l’agire quotidiano. Una “strategia” dunque più potente o un abbassamento, una perdita di ruolo, dell’arte?

R) no, ad esempio un artista come David Hammons che vendeva palle di neve ad Harlem durante le nevicate, un artista che interveniva sul sociale… però era sempre una trasformazione.

Il vendere palle di neve era già un’azione straniante, uno normalmente non vende palle di neve, però era anche un gesto normale.

Il discorso è l’artista che in una situazione espositiva… che poi gli artisti hanno anche una certa ipocrisia, non si vogliono estrarre completamente dal contesto: cioè sono contro il sistema, sono contro le logiche però poi le vogliono riportare oppure incorniciare all’interno del sistema espositivo. L’artista che all’interno della mostra vende l’acqua minerale e quello è il suo gesto-opera d’arte, secondo me fallisce, in un certo senso, perché come dicono gli americani “so what ?”

Che cosa vuol dire? Qual è il cambiamento? Cioè che percezione ha lo spettatore: compra acqua fuori o compra acqua dentro, non si porta a casa nulla di esperienza, non si rende conto di avere fatto un cambiamento di situazione! E ci sono alcuni artisti che riescono invece a fare questo molto bene.

Beuys riusciva veramente a creare dei cambiamenti. Beuys poi era anche un grande stratega, tutte le sue vetrine, tutti i suoi lavori: c’è tutto il lavoro sociale, ma la scultura poi esce fuori molto chiaramente.

Le sue vetrine, il modo in cui le teneva, l’importanza che dava agli oggetti che lui usava nelle sue azioni, era un’importanza strettamente artistica, strettamente iconica. Il grosso rischio è che spesso manca questo aspetto di soglia, che può essere costruita in qualsiasi modo.

D) poiché è stata una Biennale che oltre ad artisti ha richiamato anche curatori da diverse parti del mondo, la critica di questi paesi come ha accolto la mostra, che reazioni ha avuto?

La Biennale di Venezia, rispetto anche alle altre biennali, è ancora un punto di riferimento particolare, importante per il sistema dell’arte?

R) mah, come ho detto, la critica in generale è stata negativa, nel senso che nessuno la ha davvero capita…però in realtà conosco solo quella Occidentale… noi occidentali facciamo un gran parlare di mondo globale ma alla fine il nostro riferimento e anche il mio, sono i soliti 24 giornali e riviste che vanno dall’America all’Inghilterra all’Europa.

La valutazione sulla critica della Biennale…ci sono ottomila pagine di rassegna stampa, ma la valutazione è fatta esclusivamente su dieci giornali… che definiscono il successo della Biennale…

D) lei, curatore italiano che lavora all’estero (12) , cosa ne pensa della situazione dell’arte contemporanea in Italia, che giudizio può darne?

R) io credo che in Italia siamo ancora… è interessante da un punto di vista perché è un laboratorio in cui si può sperimentare e creare cose nuove… però siamo indietro anni luce!

Cioè la metodologia dei vari musei e curatori nella selezione di mostre e artisti è una metodologia assolutamente strampalata! Quello che i musei e le istituzioni culturali hanno, particolarmente nel mondo anglosassone, è quello che chiamano mission. Noi non abbiamo, nessuna istituzione culturale italiana ha una mission.

Una mission di un’istituzione è perché nasce? cosa vuol fare? cosa vuol far vedere? quali sono gli obbiettivi?..ora, dico, il MACRO apre con una mostra di Tony Ousler… artista più o meno buono, non vuol dire… apri una nuova struttura in una situazione importante, romana, italiana e la apri con un artista medio-basso, medio conosciuto?

Qual è la relazione? In Inghilterra o in America se un’istituzione apre in un luogo, la prima mostra deve essere in relazione a quel luogo… o un artista del luogo o un artista italiano, qualcosa che dia un’identità, non qualcosa che al curatore piace e lo fa!

E quello che credo che manchi in Italia è proprio la “missione” specifica. Arrivano i curatori, si portano dietro le loro idee e si fanno le mostre. Dovrebbero imparare secondo me una metodologia… c’è il grosso equivoco in Italia tra il proprio gusto personale e la “missione” in una istituzione pubblica.

Ci sono tantissimi artisti che a me possono piacere ma che non avrebbero “senso” mostrati in un certo museo! E questo credo che manchi in Italia.

D) e quindi lei cosa consiglierebbe ad un giovane curatore in Italia. Una fuga all’estero? Che poi è quello che ha fatto lei.

R) beh, una fuga all’estero funziona! Ma anche uno studio serio qui della situazione…

D) ma secondo la sua esperienza, il suo iter formativo…cosa consiglierebbe?

R) il mio iter formativo… beh, io ho sempre resistito, lo ho fatto una volta sola, a curare mostre in gallerie private… anche se mi rendo conto che in Italia ci sono solo gallerie private, non posso nemmeno fare una colpa ai giovani curatori a cui viene offerto di curare una mostra in una galleria privata, però capire una linea di lavoro, anche stringendo i denti… essere un po’ selettivi in quello che uno fa!

Non scrivere testi per chiunque bussi alla porta… è vero ci sono anche esigenze economiche, si può anche scrivere per chiunque poi ci paghi il testo: il problema è che questa azione non deve poi influenzare i metodi futuri, nel senso che se poi faccio la Biennale devo essere duro con me stesso e non infilarci i tre artisti su cui ho scritto…

questo dovrebbe essere chiaro, ma in Italia c’è invece spesso una certa confusione… c’è spesso una filiazione così organica!.. nel senso che uno appena tocca un artista poi rimane legato per tutta la vita… diventa amico… non c’è una metodologia professionale.

Io dico sempre: “quando entro in uno studio di un artista poi voglio avere la libertà di poterne uscire senza dovergli parlare ogni volta che lo incontro”, dico per esagerazione, ma per questo sono sempre restio ad andare negli studi degli artisti!

In Italia c’è questa soglia… una volta che passi dentro quella soglia è finita, sei un amico, è un segno di apprezzamento del lavoro a priori e quindi è usato anche… ma questo comunque non solo in Italia, ovunque: il rapporto tra curatori, critici e artisti è sempre molto complicato…

D) lei ha dei parametri in base ai quali sceglie o giudica il lavoro di un artista, oppure c’è qualcosa di più intuitivo…

R) parlavo tempo fa con un giovane curatore che voleva fare una mostra e si chiedeva: “la faccio con x o con y? e poi: “cosa sarà x tra cinque anni?”.

Ecco io non ho veramente mai fatto questo ragionamento! Però questo era un giovane curatore e mi preoccupava terribilmente che questo giovane, anche intelligente, fosse preoccupato di fare questo tipo di errore… io ho lavorato con artisti che hanno avuto successo e con artisti che sono scomparsi e in entrambi i casi non mi ritengo né preveggente né fallimentare, si lavora con degli artisti e una percentuale magari diventa famosa, una percentuale no…

il criterio che io ho sempre adottato è stato di scegliere artisti che in un modo o in un altro mi aprissero uno spiraglio sul mondo…è difficile dire in che modo, ma l’importante era che ci fosse una connessione con la realtà esterna, anche in senso negativo, come totale chiusura. Non è tanto una questione di bravura o tecnica, quella ci può essere…

è una questione di essere in sincronia con i tempi o volutamente fuori sincrono per un motivo di scelta. Ma l’artista che non si rende conto di essere fuori sincronia a me non interessa anche se il lavoro può essere esteticamente interessante.

L’artista che dipinge naif, non per scelta ma perché non si è accorto che c’è stato Richter, o David Salle… ecco De Dominicis è un artista fuori sincrono, però è un artista fuori sincrono in modo… controllato, quindi è un artista interessante…

D) il fatto che negli ultimi tre anni ci siano state tre edizioni importanti di due Biennali e una Documenta, immagino abbia accelerato la percezione sia da parte degli artisti, sia dello spettatore…

nel senso di un “invecchiamento” del gusto… già vedere oggi delle cose della seconda metà degli anni novanta già sembrano veramente superate.

Questo ha una ricaduta sulla visione dello spettatore, sul ruolo dello spettatore o influenza in qualche misura l’attività dell’artista dal suo punto di vista?

R) beh, credo che l’attività dell’artista a un certo punto venga influenzata dal successo o dal fallimento di certi linguaggi.

C’è stato un momento in cui gli artisti provinciali, non perché vengono dalla provincia, ma perché sono fuori dal centro, hanno cominciato tutti a fare video, fotografie, perché si era visto che il video e la fotografia funzionavano, quindi questo ha generato un grosso manierismo, una grande inflazione di artisti poco interessanti che hanno lavorato con il video e la fotografia.

Perché il grosso equivoco è ancora quello di dire:”ora va la pittura, ora va la fotografia e domani va il video”… ma non è questo… pochi invece analizzano il perché certi fotografi a un certo punto diventano importanti; perché certi pittori diventano importanti… perché Andreas Gursky e Thomas Struth, due fotografi tedeschi, a un certo punto sono diventati importanti… perché loro hanno studiato fotografia tradizionale e hanno fatto un salto di scala nella semplice presentazione delle foto, cioè le hanno trasformate in pittura… Gursky e Struth lavorano con i formati dei grandi quadri francesi dell’Ottocento.

Quindi hanno cambiato veramente la percezione della fotografia e dello spettatore. Lo spettatore, dal guardare un documento, si è ritrovato a far parte… a guardare dei quadri, delle situazioni completamente diverse… però questo non si è capito.

D) bene…per concludere, adesso a cosa sta lavorando?

R) sto lavorando alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo alla mostra dal titolo “Non toccare la donna bianca”, titolo ripreso dal film di Ferreri, con una ventina di artiste donna asiatiche, africane, afroamericane…

e poi sto lavorando per il Museum of Contemporary Art di Chicago a “Universal experience. Art life and the turist eye” che parla del rapporto tra l’opera d’arte e lo sguardo del turista.

D) altre esperienze con altri curatori?

R) no, per il momento no, questa mi è bastata…


(1) “La Biennale 2003: Sogni e Conflitti. La dittatura dello spettatore. Un bilancio.”, incontro/dibattito a cura di zero(+), coordinatore prof.Nico Stringa.

(2) Bonami ha anche curato le sezioni “Clandestini” (Arsenale), “Ritardi e Rivoluzioni” con D. Birnbaum (Padiglione Italia) e la retrospettiva “Pittura/Painting: da Rauschenberg a Murakami, 1964-2003” al Museo Correr.

(3) J. Beuys

(4) Stazione Utopia a cura di M.Nesbit, H.U.Obrist, R.Tiravanija, Arsenale.

(5) “Big boy” di Ron Mueck, 49° Biennale di Venezia, Arsenale.

(6) Rappresentazioni arabe contemporanee, Arsenale.

(7) Sistemi individuali, Arsenale.

(8) Smottamenti, Arsenale.

(9) Z.O.U. / Zona d’urgenza, Arsenale.

(10) La struttura della crisi, Arsenale.

(11) Il quotidiano alterato, Arsenale.

(12) Bonami è Senior Curator al Museum of Contemporary Art di Chicago.